Bilancio europeo post 2020: chi vince e chi perde
Il 2 maggio la Commissione europea presenterà le sue proposte per il prossimo bilancio UE. Come quello attuale, in scadenza nel 2020, il nuovo Quadro finanziario dovrà coprire un orizzonte pluriennale e fornire risorse sufficienti per centrare le priorità politiche dell'Unione, nonostante la Brexit e la conseguente perdita del contributo del Regno Unito.
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Ogni sette anni l'Unione europea decide il futuro delle sue finanze e gli Stati membri si impegnano per mesi in estenuanti trattative per ottenere il più possibile da quanto versano al bilancio UE, secondo il principio noto come “il giusto ritorno”. Un meccanismo che la Commissione europea chiede di abbandonare in occasione dei negoziati per il prossimo Quadro finanziario pluriennale, il primo che dovrà fare a meno del contributo di Londra e allo stesso tempo coprire le spese per nuove esigenze comuni, dalla sicurezza alla pressione migratoria, fino alla lotta ai cambiamenti climatici.
Il motivo di questa richiesta di cambio di prospettiva sta tutto nella difficile contingenza che vede l'UE alle prese con nuovi impegni proprio nel momento in cui perde un partner essenziale, e con esso circa 12-13 miliardi di euro.
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Attualmente gli Stati membri versano al bilancio UE appena l'1 per cento del proprio reddito nazionale lordo. Con queste risorse si finanziano i fondi regionali della Politica di Coesione, i pagamenti della Politica agricola comune, le borse Erasmus e il programma Horizon 2020 per la ricerca e l'innovazione, ma anche il programma LIFE per l'ambiente e il clima, Europa creativa per la cultura e il cinema, fino agli aiuti in caso di calamità naturali, come quelli per i terremoti del 2016 e del 2017 in Italia centrale.
Già solo mantenere lo stesso livello di impegni nel settennato post 2020 facendo a meno del Regno Unito richiederebbe alcuni risparmi. Se poi consideriamo che l'UE ha da tempo individuato una serie di nuove sfide - difesa, sicurezza, migrazione, cambiamento climatico, digitalizzazione - su cui l'azione comune risulterebbe più efficace degli sforzi singoli, diventa evidente che gli Stati membri sono di fronte ad un aut aut: o rinunciano a parte dei fondi per le politiche tradizionali, come la Coesione e la PAC, a favore delle nuove priorità, oppure accettano di aumentare il proprio contributo al bilancio UE, riconoscendo che il “ritorno” dei fondi europei non coincide strettamente con le somme ottenute a fronte di quanto versato, ma con i vantaggi di più lungo termine dell'azione UE e dell'appartenenza stessa all'Unione.
La logica del giusto ritorno è infatti strettamente legata alla contrapposizione tra contributori netti e beneficiari netti dei fondi UE. Ma il bilancio UE non è un gioco a somma zero, perché lo spesa a favore della crescita di uno Stato membro o di una regione in ritardo di sviluppo facilita le opportunità di investimento e le occasioni di mercato per i Paesi e i territori vicini, basti pensare all'export. Secondo le stime della Commissione, un quarto della crescita addizionale dei paesi non beneficiari della Coesione deriva indirettamente dallo sviluppo di quelli che della Coesione sono beneficiari. Quindi un taglio drastico dei fondi strutturali europei interromperebbe non solo il percorso di crescita di territori che, soprattutto negli anni della crisi, hanno potuto contare sui fondi UE come principale fonte di investimento pubblico, ma avrebbe ripercussioni anche sulle aree più avanzate.
Discorso analogo per la PAC, di cui tra l'altro non bisogna dimenticare il contributo al mantenimento della vitalità di aree interne a rischio spopolamento, dove l'agricoltura rappresenta un presidio fondamentale anche per la conservazione della biodiversità e la prevenzione del dissesto idrogeologico.
E' alla luce di queste premesse che la Commissione ha compiuto, con la comunicazione sul prossimo Quadro finanziario pluriennale pubblicata a febbraio, un'operazione molto chiara: mettere a confronto obiettivi e impegni di spesa stimati, per rendere evidente che ad ogni cifra corrisponderà un impatto più o meno significativo dell'intervento UE e ad ogni taglio la rinuncia ad un target che non potrà essere finanziato.
Così la conferma di un budget di 14,7 miliardi di euro per il programma Erasmus significherà non poter raggiungere più del 4% dei giovani che vivono in Europa, mentre portarlo a 30 miliardi significherebbe raddoppiare anche il numero dei beneficiari delle borse di mobilità e con 90 miliardi sarebbe possibile coinvolgere un giovane su tre.
Discorso analogo per il programma quadro per la ricerca e l'innovazione: passando dagli 80 miliardi del programma attuale, Horizon 2020, a 120 miliardi di euro, si potrebbero creare 420mila posti di lavoro aggiuntivi e aumentare il Pil dello 0,33% nel corso del settennato; raddoppiandolo a 160 miliardi, si avrebbero 650mila nuovi posti di lavoro e una crescita del Pil dello 0,46%.
Per la Coesione e la PAC le opzioni prospettate nella comunicazione di Bruxelles sono tre: il mantenimento dello status quo; un taglio contenuto (circa 95 miliardi di euro in meno per la Coesione, 60 per la PAC; un taglio più radicale (circa 124 miliardi in meno per la Coesione, circa 120 miliardi di euro per la PAC). Anche se sulla Coesione il commissario al Bilancio Günther Oettinger si è già pronunciato a favore di un taglio ben più modesto, attorno al 5%.
In generale, però, tagliare i fondi significa che i programmi dovranno essere rivisti, non tutto potrà essere finanziato. Nel caso della Coesione, un taglio contenuto potrebbe condurre ad escludere alcune regioni dai fondi europei, in Italia quelle del Centro-Nord. Nello scenario più drastico l'Italia intera non sarebbe tra i beneficiari della Politica che da trent'anni assicura il perseguimento di uno degli obiettivi fondamentali dei Trattati, la coesione economica, sociale e territoriale all'interno dell'Unione.
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