Libri: Doppia partita. Europa e Italia dopo il Covid-19
Nel 2020 la risposta dell'UE alla pandemia è stata ben diversa da quella data dieci anni primi alla crisi del debito sovrano. “Questa volta – scrive Antonio Pollio Salimbeni nel suo libro 'Doppia partita. Europa e Italia dopo il Covid-19: occasioni e limiti della risposta alla grande crisi' - il Whatever it takes è della politica”.
Coronavirus: le tappe 2020 della risposta UE
Un intervento finanziario e di politica economica di portata considerevole. E rapido. Al contrario di quanto avvenuto una decina di anni prima all’epoca della crisi del debito sovrano, con la Grecia sull’orlo del fallimento. La risposta europea alla devastazione economica provocata dal Covid-19 è stata come un risveglio dal sonno politico di un’Europa la cui cifra non appare essere l’unione, bensì la disunione.
Un’Europa dal potere disperso e dai poteri contrapposti, contrassegnata da populismo e nazionalismo. In più, segnata dall’amputazione dovuta alla Brexit, scelta unilaterale britannica e pur sempre il segno di un indebolimento del progetto continentale. Un’Europa dalle incerte prospettive in una fase molto difficile dell’economia e della politica globali, di sbriciolamento della capacità di governance condivisa.
Questa volta non è andata come all’epoca della crisi originata dagli Stati Uniti, che in Europa ha comportato due recessioni in cinque anni con la crisi del debito sovrano e il rischio di una profonda spaccatura dell’unione monetaria. Quanto accaduto nella primavera-estate 2020 ha cambiato il senso di marcia dell’Unione europea, in qualche modo ne ha proiettato il futuro in una dimensione economica e politica impensabile fino a pochi mesi prima.
Una mezza rivoluzione concettuale ancor prima che di strategia economica con cui sono state poste le basi per fronteggiare la crisi più grande mai sperimentata dal dopoguerra e attesa durare a lungo. Ancora all’inizio dell’autunno era prevista una ripresa solo parziale, lenta, a singhiozzo, “stop and go”. Incerta. Ostaggio della pandemia.
Secondo la BCE sarebbero necessari anni per superare completamente i danni economici della crisi sanitaria globale. Nella maggior parte dei Paesi industrializzati del mondo, stando all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il livello di prodotto a fine 2021 sarebbe inferiore al livello del 2019: complessivamente i Paesi OCSE perderebbero l’equivalente di quattrocinque anni di reddito pro capite. L’economia dell’Unione europea era prevista avvicinarsi al livello di PIL pre pandemia solo a fine 2022. Scenari di grande sbandamento che richiedono nuovi strumenti e impegni politici molto diversi da quelli del passato.
È giudizio unanime che l’accordo raggiunto nel luglio 2020 dai capi di Stato e di governo sulla risposta all’emergenza economica e sul bilancio dell’Unione 2021-2027 sia una pietra miliare. Secondo molti uno snodo decisivo nel processo di integrazione. Charles Michel, ex premier belga liberale e da fine 2019 presidente permanente del Consiglio europeo, ha coniato addirittura un nuovo termine, ossimoro un po’ troppo creativo: evoluzione copernicana. Altri massimi responsabili di governo, per esempio il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel, hanno parlato di accordo storico cercando di definire anticipatamente i caratteri di un nuovo ciclo appena abbozzato e ancora tutto da realizzare.
Come al solito abbondano gli aggettivi, la cui fondatezza può essere verificata soltanto più avanti. Difficile parlare di rivoluzione totale, di un ulteriore passo nell’integrazione europea perché persistono molti degli ostacoli che vi si frapponevano prima della pandemia. Limitato parlare di mera evoluzione: le premesse e le prime reazioni politiche alla pandemia e al blocco delle economie non indicavano affatto che si sarebbe giunti ineluttabilmente alla svolta di luglio. E niente indica che a crisi finita si arriverà a un nuovo equilibrio nell’economia e nella politica europee, a una nuova normalità i cui caratteri, peraltro, sono ancora tutti in formazione. Non c’è sovvertimento come non c’è un punto finale di arrivo predefinito.
Solo il punto di partenza è chiaro: occorre agire rapidamente per evitare lo sconquasso economico e politico dell’Unione europea travolta da una pandemia, non da Stati spendaccioni e irresponsabili, dalle incursioni della finanza iperspeculativa, da banchieri potenti e dissennati, da una politica al di là e al di qua dell’Atlantico che nel 2007-2008 permise tanta dissennatezza.
Questa è la prima differenza di fondo della grande crisi del 2020 rispetto alla recessione del 2009 e poi alla crisi del debito sovrano cominciata nel 2010, che forzò i governi europei a salvare in successione cinque Stati per evitare l’implosione dell’area monetaria. Sono contesti non confrontabili con il 2020: Grecia, Irlanda, Portogallo e poi Spagna, Cipro (l’Italia fu sotto tiro nel 2011, ma riuscì a evitare il salvataggio della Troika) erano il fronte vulnerabile d’Europa a causa di dinamiche dell’indebitamento pubblico non sostenibili, bassi tassi di crescita economica o delle banche travolte dalla crisi originata nel settore dei mutui immobiliari americani (subprime).
Crisi finanziarie simultanee che avevano messo immediatamente alla prova l’area euro in quanto tale, unione di Stati dotata di una moneta unica ma non di una sovranità economica completa, senza strumenti per fornire (automaticamente) liquidità agli Stati in emergenza, senza un’autorità fiscale centralizzata. Inevitabile si scommettesse (si speculasse) sulla sua capacità di reazione, di tamponare e gestire il rischio di fallimento di uno Stato. Inevitabile che gli investitori si gettassero sui titoli pubblici tedeschi e abbandonassero quelli dei Paesi vulnerabili, anzitutto della Grecia che aveva pure truccato i conti pubblici, poi dell’Italia, fragile economicamente quanto politicamente (erano i tempi del governo di Silvio Berlusconi, maggio 2008-novembre 2011).
Questa volta la crisi è importata. Esogena, dicono gli economisti. Inaspettata. Semitotale nel senso che la pandemia ha bloccato la circolazione delle persone innestando la paralisi di una parte importante dei sistemi economici nazionali e globali, dalle loro nervature produttive e di servizio (trasporti e turismo innanzitutto) all’attività amministrativa. Una crisi simmetrica che ha colpito tutti i sistemi economici allo stesso modo anche se non nella stessa misura, con la stessa intensità, e che per questo richiedeva una risposta rapida e coordinata. Con un imperativo: evitare che producesse, appunto, effetti asimmetrici aggravando le divergenze economiche tra gli Stati al limite tollerabile già prima del Covid-19.
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Si sta giocando, quindi, una partita che appare decisiva per la UE, per i governi, per i partiti politici. Per l’Unione europea perché va verificato se sarà in grado di essere effettivamente resiliente superando la crisi e attrezzandosi per migliorare la prestazione dell’economia a livello continentale. Per i governi perché a un certo punto dovranno decidere se la condivisione dei rischi deve restare solo una possibilità da tenere nell’armadietto della Croce Rossa o non essere, invece, il cammino da percorrere. Per i partiti politici europei perché hanno dimostrato la loro insignificanza in quanto tali, sovrastati dal preponderante interesse nazionale degli Stati.
Per l’Italia la partita è doppia: avrà più di tutti gli altri Paesi in termini di solidarietà pagante, ma dovrà assicurare di essere in grado di riformarsi, condizione primaria perché i fondi europei siano usati correttamente e il Paese possa lasciare dietro di sé i rischi di indebolimento strutturale dell’economia, di declino. C’è il dare e c’è l’avere: le risorse comuni sono state ripartite ma non automaticamente garantite. Per ottenerle occorrono buoni progetti di investimento e riforme per sbloccare l’economia. Anche per la UE c’è un dare e un avere: aiuti contro strategie di spesa dei governi a sostegno di una nuova fase di crescita continentale, che faccia leva sullo sviluppo ecologico per rispettare gli obiettivi pro clima e sull’economia digitale. Per creare le basi di un benessere diffuso che duri, appunto, per le prossime generazioni.
Estratto da “Doppia partita. Europa e Italia dopo il Covid-19: occasioni e limiti della risposta alla grande crisi” di Antonio Pollio Salimbeni, Castelvecchi editore
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