Copenhagen: crisi tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo sulle emissioni di CO2

 COP15 CopenhagenOra che finalmente il rispetto per i temi ambientali sta facendo breccia nell’agenda dei media e nei cuori dell’opinione pubblica, sembra non esserci più spazio per ex idoli soli al comando come Al Gore. Solo tre anni fa veniva il suo documentario "Una scomoda verità" veniva osannato da critica e pubblico tanto da meritargli l'Oscar e il Nobel. Ora che la raccolta differenziata non è più un'ossessione per pochi e i governi emanano circolari per riduzione dei consumi energetici e promuovo incentivi per la rottamazione di veicoli inquinanti, la difesa dell’ecosistema ha smesso di essere una passione momentanea, diventando così una stringente necessità per il futuro delle generazioni che verranno.
Ecco perché le tensioni annidatesi attorno al vertice di Copenhagen per la prima volta assomigliano a quelle tipiche del “popolo di Seattle” e di coloro che hanno manifestato in occasione dei vertici del G8 o del WTO.
 
L’ambiente non è più solo argomento di conversazione salottiera, o piuttosto ragione di strenua battaglia dei pionieri di Greenpeace o del Wwf, ma bene prezioso da preservare attraverso comportamenti responsabili di ognuno (come ricorda dal controsummit in corso a Seattle la giornalista Naomi Klein) e - soprattutto - attraverso le azioni concrete dei governi.
 
Al terzo giorno di vertice sul clima di Copenhagen emerge in tutta la sua problematicità il nodo gordiano dei tagli alle emissioni di Co2. E’ proprio qui che si consuma il braccio di ferro tra i paesi ricchi (che tanto hanno inquinato e fora ingono di cospargersi di cenere il capo) e quelli in via di sviluppo (che ad inquinare hanno appena cominciato, proporzionalmente ai loro tassi di sviluppo).
 
Già lo scorso 8 dicembre i rappresentanti di 131 paesi in via di sviluppo e le ONG avevano fatto sentire la loro voce, dopo che al vertice era circolata una bozza avanzata dalla Danimarca (il paese “iperecologista” che fa gli onori casa e che presiede il summit) di un testo che, secondo loro li avrebbe scavalcati nei contenuti, perché conferirebbe un più ampio potere decisionale ai paesi ricchi, emarginando anche il ruolo Onu. Pare che questo testo girasse già da alcune settimane, ma il premier danese Rasmussen ha smentito che possa trattarsi di una proposta definitiva.
 
Nondimeno, la bozza contestata non fa mai riferimento al Protocollo di Kyoto, l’unico strumento giuridico attualmente in vigore per contrastare l’effetto serra, che impegna formalmente i governi fino al 2012. Un testo – quello danese - giudicato più filoamericano di quanto sarebbe stato se fosse stato redatto dagli Stati Uniti, che difatti Kyoto (almeno ai tempi di Gorge W. Bush) non lo hanno mai voluto ratificare. I paesi in via di sviluppo temono proprio che si voglia ignorare questo trattato che risale al1 997 e che i paesi ricchi vogliano liberarsi da ogni costrizione. Il testo danese, anticipato dal quotidiano The Guardian, riprende l’obiettivo ambizioso e largamente condiviso del limite di 2° C al riscaldamento climatico con un taglio delle emissioni mondiali del 58% rispetto a quelle del 2005. Per raggiungere tali scopi, la bozza danese propone un finanziamento-compromesso di 10 miliardi di dollari annui per i paesi in via di sviluppo.
 
I leader europei, che più di tutti caldeggiavano l’accordo, sembrano aver abbandonato l’idea di un accordo giuridico mondiale per contrastare il cambiamento climatico da concludere nell'immediato. E’ plausibile piuttosto la stesura di una roadmap da seguire nei sei mesi successivi al COP15 , per arrivare gradualmente ad un’intesa definitiva. “La maggior parte dei paesi – ha affermato il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso - non è pronta per un accordo”. Non tutti, infatti, concordano con un taglio alle emissioni al 30%, rispetto all’attuale 20%.
 
Per quanto riguarda gli aiuti immediatamente disponibili per i paesi in via di sviluppo (i cosiddetti fast track funding), l’Europa mette sul piatto 2 miliardi di euro annui. Una posta che potrebbe lievitare fino a 5-7 miliardi. La cifra definitiva verrà stabilita al summit del Consiglio Europeo a Bruxelles, in programma dal 10 all’11 dicembre 2009, l’ultimo sotto la presidenza di turno svedese.
 
Resta poi da capire cosa faranno gli Stati Uniti. Mentre Barack Obama conferma la sua presenza a Copenhagen, l’avversaria Sarah Palin, in un editoriale sul Washington Post, ha invitato a boicottare il vertice: “Qualsiasi accordo raggiunga – scrive la repubblicana Palin – non sarà un accordo per il popolo americano”.
 
La posizione statunitense è strettamente legata alle prossime mosse della Cina. Insieme queste due potenze superano il 50% delle emissioni globali. Xie Zhenhua, capo negoziatore cinese al vertice sul clima dell'Onu, ha assicurato che Pechino vuole giocare un ruolo costruttivo nel summit, il cui successo dipende in larga parte dall'accordo con Washington. “Spero davvero che il presidente Obama possa portare un contributo concreto a Copenaghen”, ha detto Xie. Secondo la Cina, i Paesi ricchi devono tagliare i gas serra di almeno il 25-40% entro il 2020. In questo caso Pechino valuterà l'obiettivo globale di dimezzare le emissioni entro il 2050. Quanto al contributo da destinare ai Paesi più poveri, secondo Xie non bastano 10 miliardi di dollari all'anno per il triennio fino al 2012.
 
A questo punto resta da capire se gli aut aut, se le “date limite”, per dirla con Connie Hedegaard, neocommissaria europea per il clima, siano veramente vincolanti per i grandi della terra. Nel 2006 avevano stabilito che l’ora X sarebbe scattata con il vertice di Copenhagen. Il 2009 sembrava ancora così lontano…

(Alessandra Flora)