Crowdfunding: Giudici (Politecnico Milano), le ragioni di una partenza debole
Tempi lunghi, scarso appeal dei progetti presentati dalle startup innovative e attesa crescente per gli sviluppi del decreto ‘Investment Compact’. Giancarlo Giudici, professore associato e responsabile dell’Osservatorio sul crowdfunding del Politecnico di Milano, fa un bilancio del settore in Italia.
A un anno e mezzo dall'adozione del regolamento sull'equity crowdfunding, ritiene i risultati al di sopra o al di sotto delle aspettative
Personalmente avevo aspettative più ottimistiche, in particolare rispetto all’accoglienza da parte dei possibili investitori. Molte imprese hanno purtroppo fallito nella raccolta, e quelle che sono riuscite hanno dovuto faticare parecchio. I tempi sono stati molto lunghi, perché diverse piattaforme hanno dovuto ingegnerizzare i processi, e confrontarsi con la CONSOB da una parte per implementare al meglio le norme e con le banche dall’altra per la gestione dei pagamenti. Anche lo scouting delle startup innovative non è stato semplice.
Le piattaforme non registrate sono più di quelle registrate, ritiene possa sussistere il rischio di un'eccessiva frammentazione del settore?
Quando si sviluppa una nuova industria, è naturale che tanti player possano essere interessati, e decidano di entrarci, tanto per acquistare un’opzione su eventuali sviluppi positivi in futuro. La teoria finanziaria mostra che il valore di queste opzioni reali è tanto più alto quanto è maggiore l’incertezza. A maggior ragione si consideri che stiamo parlando di un’industria che non presenta significative barriere all’ingresso, né necessita di investimenti consistenti. Altrettanto tipico è assistere nei periodi successivi ad una concentrazione del mercato. È probabile che alcuni portali (i meno abili nell’attrarre le proposte di imprenditori di talento, o l’interesse degli investitori) chiuderanno, altri saranno acquisiti da loro concorrenti.
Sicuramente l’attrattività del business di gestire una piattaforma di equity crowdfunding aumenterà con gli auspicabili sviluppi del Decreto ‘Investment Compact’ che aprirà questa opportunità non solo alle startup ma anche alle PMI.
Ad oggi è sicuramente un business che non è ancora arrivato a break even, e che non genera profitti per i gestori di piattaforme, i cui ricavi principali si basano sulle commissioni in caso di successo nella raccolta.
Basta fare due conti: ipotizzando anche una commissione pari al 7% (i valori saranno probabilmente più bassi) su un controvalore totale raccolto ad oggi pari a 1,3 milioni di euro nel corso di un anno, si ottiene un flusso di revenue pari a circa 90mila euro, che bastano a malapena a pagare lo stipendio di una persona. Noi prevediamo dunque l’arrivo di ulteriori gestori nel breve termine, mentre dal 2016 si assisterà ad una progressiva concentrazione.
Altro fenomeno interessante potrebbe essere l’arrivo di player esteri, o l’ingresso nel settore di qualche grande gruppo industriale: in tal caso ci sarebbe un ulteriore salto di qualità nell’attenzione verso il mercato.
Stando ai dati forniti dall'Osservatorio del Politecnico di Milano sul Crowdfunding, i risultati ottenuti dalle piattaforme registrate in Italia non sembrano rosei. Qual è il suo giudizio?
Molti rivendicano che le norme attuali sull’equity crowdfunding in Italia siano troppo restrittive. Ad esempio si cita l’obbligo di collocare almeno il 5% dell’offerta presso investitori qualificati o incubatori certificati come uno dei limiti principali. Si può discutere in merito all’opportunità del principio, ma nei fatti l’evidenza empirica non supporta questa tesi. Fra le offerte che non hanno chiuso con successo, in nessun caso il motivo è stato l’incapacità di trovare una banca o una finanziaria o un incubatore che investisse. Anzi il problema è stato arrivare al 5% proprio dalla ‘folla’ di Internet.
A nostro avviso i motivi di questa partenza a ritmo ridotto sono essenzialmente due. Il primo è lo scarso appealing dei progetti presentati dalle startup innovative. È mancato il fattore ‘virale’ che può solleticare non solo l’obiettivo di investimento, ma anche il voler far parte di un progetto innovativo e stimolante. In altre parole, non si è riuscito a coinvolgere emotivamente la folla di Internet.
In secondo luogo pensiamo che le valutazioni proposte dalle imprese siano state eccessivamente elevate. In media, i 17 progetti finora pubblicati hanno offerto il 25,9% del capitale chiedendo € 335.000. Ciò equivale ad una valutazione implicita media (‘post money’ direbbero i venture capitalist) pari a quasi € 1,3 milioni. Per società startup, che a volte hanno un fatturato di poche migliaia di euro, è veramente una cifra elevata.
L’errore è stato quello di applicare multipli tipici del mercato del venture capital e dei business angel (i quali hanno maggiore potere contrattuale verso gli imprenditori-fondatori dell’impresa e possono apportare valore nella gestione dell’impresa) a campagne di finanziamento rivolti a investitori retail, spesso invitati a sottoscrivere quote senza nemmeno diritto di voto.
La percentuale media di raggiungimento del target per i progetti senza successo è piuttosto bassa (4,8%), contro il 101% circa dei progetti finanziati. Come si spiega tale differenza? A cosa è dovuta?
Questo è uno dei dati più clamorosi. Si può dire che molti progetti nell’arco del periodo di raccolta non siano riusciti ad attirare l’interesse nemmeno dei propri familiari e dei propri amici. Sicuramente occorre che gli imprenditori desiderosi di raccogliere capitale con operazioni di crowdfunding siano consapevoli che occorrono competenze di marketing multimediale, attraverso l’uso delle moderne tecniche di comunicazione attraverso, ad esempio, i social network. Secondo gli studi condotti al Politecnico, la sorte di un progetto si gioca nei primissimi giorni di offerta. Se il tasso di adesione non decolla, diventa poi difficile convincere il popolo di Internet. Occorre crearsi quindi una solida ‘base’ di sostenitori già da subito.
Ritiene siano opportune modifiche al regolamento affinché le piattaforme possano ottenere risultati migliori?
Come detto prima, non penso che questo sia l’elemento fondamentale. Ciò non toglie che vi siano dei fattori ‘istituzionali’ che dovrebbero essere corretti al più presto, per consentire la piena efficienza del mercato. In particolare mi riferisco ai costi transazionali legati alla vendita delle quote sottoscritte.
Oggi chi volesse smobilizzare il proprio investimento equity in una società non quotata dovrebbe stipulare un atto con il supporto di un notaio o di un commercialista e perfezionare la trascrizione al registro camerale, il che potrebbe costare anche più di quanto investito.
In secondo luogo occorre ottimizzare il processo di profilazione dell’investitore al momento della sottoscrizione, che oggi risulta molto complesso il virtù delle norme MIFID e della giusta preoccupazione di evitare fenomeni di riciclaggio di denaro.
Si tratta comunque di provvedimenti che non riguardano solo il settore dell’equity crowdfunding, ma in generale sono innovazioni che potrebbero interessare l’intero mercato del capitale e dei pagamenti, che sicuramente è destinato a modificarsi profondamente nei prossimi anni grazie alla diffusione e allo sviluppo delle tecnologie digitali.