L'EcoEuropa alla guida della Green Revolution
Per capire ciò che oggi sta accadendo, dobbiamo fare un passo indietro. Alla fine del 2006 l’UE si è trovata di fronte a due grandi sfide. Da un lato la questione energetica, balzata al centro del dibattito internazionale a causa della crisi russo-ucraina del gas – la prima di una lunga serie - che quell’inverno fu capace di mettere alle strette più di un paese. Evocativa la parodia offerta da un comico italiano di un Putin beffardo che chiudeva i rubinetti alla faccia degli europei. In quel frangente l’UE ha seriamente rischiato di avviarsi al declino, restando in balia di potenze ricche di materie prime come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India.
L’altra sfida, più propriamente ambientale, riguarda il “post Kyoto”. Nonostante manchino ancora due anni alla scadenza del protocollo, i dati scientifici hanno dimostrato l’urgenza di un ulteriore, drastico taglio alle emissioni di CO2, che possa raggiungere il 30%, per contrastare il surriscaldamento globale. Nei prossimi anni, infatti, la domanda di combustibili fossili è destinata a aumentare, a fronte degli sprechi dell’occidente e della “fame energetica” crescente di potenze demografiche come Cina e India. Lo stesso segretario dell’Onu, Ban Ki-Moon, ha dichiarato in questi giorni che “stiamo andando verso l’abisso con il piede schiacciato sull’acceleratore”. Nulla di nuovo, visto che già nel 2006 il rapporto Stern sull’economia del cambiamento climatico metteva nero su bianco i pericoli di desertificazione, global warming e altre catastrofi. Quello che mancava era la volontà politica mondiale di cambiare le cose.
Con il pacchetto integrato ambiente-energia, quello del famoso “20-20-20”, l’UE è riuscita a sterzare prima che fosse troppo tardi, portando a casa un risultato oltre le aspettative. Doveva riuscirci, pena la sopravvivenza politica. Alcuni l’hanno voluta ribattezzare la “terza rivoluzione industriale” per la portata innovativa delle azioni intraprese. Alla base di questa rivoluzione c’è l’idea che anche il carbonio possa avere un prezzo e si debba pagare per inquinare. E’ questo uno degli strumenti prescelti per ridurre le emissioni, nonostante la strenua opposizione di molti paesi e di molte organizzazioni rappresentative delle imprese (come la nostra Confindustria), secondo cui la rivoluzione verrebbe pagata con il “sangue” delle pmi.
L’altro grande pilastro della strategia europea è rappresentato dalle fonti rinnovabili sui principali settori del consumo energetico - sulle quale l’UE ha emanato un’importante direttiva - un mercato di espansione che sta generando in tutto il mondo nuove opportunità di lavoro (i cosiddetti “green jobs”). Un settore in cui l’Italia purtroppo ha creduto poco ed ora arranca: nel 2007 la quota di rinnovabili neanche raggiungeva il 7%, a fronte del 30% della Svezia o del 23,8 dell’Austria.
Tuttavia non sarà possibile dimezzare le emissioni entro il 2050 ricorrendo solo alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica. Da qui la priorità politica europea di sviluppare sistemi di sequestro e stoccaggio della CO2 e la conseguente approvazione di un’apposita direttiva.
L’opera non è di certo completata, ma le fondamenta ci sono. Bisogna creare un mercato interno dell’energia, un progetto che si tenta faticosamente di compiere dagli anni Novanta. Un mercato integrato e aperto, fatto di buone regole a tutela dei 500 milioni di consumatori europei, di grandi player che agiscano in modo trasparente, di arbitri indipendenti e nuove e adeguate infrastrutture per l’approvvigionamento ed il trasporto, con l’auspicio di una reale separazione futura (unbundling), non ancora realizzata, tra reti di fornitura e di trasmissione e reti di produzione. Secondo il presidente dell’autorità per l’energia elettrica e il gas, Alessandro Ortis, che del libro ha scritto la prefazione, il settore energetico è da annoverare ragionevolmente tra le cause della crisi finanziaria. Quando, nell’estate del 2008, il prezzo del petrolio ha raggiunto la soglia di 150 dollari al barile negli Usa, l’impatto è stato drammatico per tutti, in particolare per il potere d’acquisto dei consumatori. A chi accusa il libero mercato di aver fallito, Ortis risponde che a fallire è stato invece il non-mercato, cioè un sistema, quello delle materie prime, tutt’altro che trasparente, che finora è stato in mano ai “cartelli” e degli oligopoli e dei protezionismi.
Ora più che mai la politica è matura per questo tipo di discorsi. Fino a quando George W. Bush era alla Casa Bianca, i nuovi grandi inquinatori, come la Cina, avevano l’alibi per non firmare il protocollo di Kyoto e la sostenibilità ambientale veniva trattata come materia per ambientalisti di Greenpeace o del Wwf o per mosche bianche illuminate come Al Gore. Con l’amministrazione Obama gli Usa hanno compiuto un vero e proprio U-turn, di cui la grande partita dell’accordo globale Copenhagen può rappresentare la chiave di volta.
Per la prima volta nella storia dell’umanità i trasporti, l’energia, l’industria e l’ambiente sembrano andare nella stessa direzione. E’ questo il caso delle “auto verdi”, degli ecoincentivi e della rottamazione delle auto più inquinanti. Lo stesso commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani – che a Milano ha presentato il saggio di Corazza insieme ad Ortis – ha annunciato un nuovo Libro bianco sul miglioramento della qualità dei trasporti che tenga conto della nuova politica su clima ed energia. Come scrive Corazza, è giunto il momento di guardare oltre Copenhagen e di proiettarci nel 2050.
In libreria:
Carlo Corazza, EcoEuropa. Le nuove politiche per l'energia e il clima, Egea 2009