Il paradosso europeo: per abbandonare il gas russo l’UE rischia di dipendere dalla Cina
Per sganciare il Vecchio Continente dalla dipendenza dal gas russo Bruxelles punta non solo su un aumento dell’import di gas da altri Paesi ma anche su un massiccio investimento nelle energie rinnovabili. Settore, quest'ultimo, in cui la Cina fa la parte del leone. Lo stesso si dica per le materie prime critiche, indispensabili per realizzare la transizione green. L’Europa si trova quindi di fronte ad un paradosso: per sganciarsi dall’influenza russa rischia di legarsi mani e piedi alla potenza cinese. Ma dalla sua il Vecchio Continente ha una carta importante da giocare, anzi due.
“L'accesso alle risorse costituisce inoltre una questione di sicurezza strategica per l'ambizione dell'Europa di realizzare il Green Deal. Garantire l'approvvigionamento di materie prime sostenibili, in particolare di quelle essenziali per le tecnologie pulite e le applicazioni digitali, spaziali e di difesa, diversificando l'offerta da fonti sia primarie che secondarie, è pertanto uno dei prerequisiti per far sì che tale transizione si realizzi”, si legge nella comunicazione sul Green Deal dell’11 dicembre 2019.
Non sono passati nemmeno tre anni e l’Europa sta imparando a sue spese quanto costino le debolezze strategiche e quali conseguenze porta con sé la dipendenza da un unico fornitore per gli approvvigionamenti energetici.
Nonostante il calo significativo delle forniture energetiche russe negli ultimi mesi l’Europa non può certo cantare vittoria. E rischia, senza un’attenta strategia di lungo termine o un deciso cambio di rotta, di finire dalla padella alla brace.
Usciti dall’ombra di Putin sul fronte gas, infatti, rischiamo di dipendere da un’altra grande potenza, la Cina di Xi. La ragione è semplice.
Lo European Green Deal e i vari dossier che ne seguono hanno tutti un minimo comun denominatore: la transizione green e sostenibile. Transizione che si realizza attraverso investimenti in una moltitudine di settori e tecnologie, in primis le energie rinnovabili e la mobilità sostenibile. Due macrosettori, per l’appunto, dominati da Pechino.
Quando pesa la Cina nel mercato globale delle energie rinnovabili?
Molto, anzi moltissimo. In primis il Dragone domina l'industria del fotovoltaico.
Un rapporto pubblicato nell’estate 2022 dall’Agenzia internazionale dell’energia ha messo nero su bianco un dato di fatto: come accaduto in passato per molti altri settori industriali, anche in fatto di rinnovabili l’Europa (in buona compagnia di Stati Uniti e Giappone) ha appaltato alla Cina la produzione materiale. Di conseguenza, il controllo di Pechino non solo riguarda tutte le fasi di produzione di un pannello solare ma tale controllo supera addirittura l’80%.
Ma non è solo il fotovoltaico ad essere interessato dalla leadership cinese. Nel 2021 la Cina ha annunciato di aver costruito più impianti eolici offshore che il resto del mondo negli ultimi cinque anni. Se tale immagine non bastasse a rendere l’idea del peso del Dragone nel mercato eolico globale basti pensare che 6 delle prime 10 aziende più importanti al mondo per la produzione di turbine eoliche sono cinesi.
L’Europa quanto dipende dalle rinnovabili cinesi?
Tanto, e non potrebbe essere altrimenti. Con Pechino che domina il mercato globale delle energie rinnovabili, del resto, tale dipendenza è praticamente inevitabile.
Le esportazioni di batterie solari cinesi (celle fotovoltaiche e moduli) verso l’Unione Europea sono cresciute del 138% nei primi otto mesi del 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021 secondo i calcoli del South China Morning Post basati sui dati doganali cinesi.
Una crescita record legata a filo doppio all’attenzione crescente che Bruxelles sta riservando proprio a questa forma di energia rinnovabile. Il solare rappresenta infatti una fonte di elettricità e riscaldamento rinnovabile a basso costo che può essere implementata rapidamente. E dovendo rispondere in tempi rapidi alla crisi energetica che sta investendo il Vecchio Continente la scelta di Bruxelles di puntare molto sul solare fotovoltaico non è casuale.
Rischiamo di uscire dalle grinfie dell’orso per entrare in quelle del dragone?
Sì. La grande attenzione europea verso le rinnovabili non è una novità e lo European Green Deal l’ha messo nero su bianco già nel 2019. La guerra in Ucraina e il vertiginoso aumento dei prezzi di gas ed elettricità hanno però imposto a Bruxelles di ingranare la marcia e accelerare la transizione verso un’energia più pulita.
Così a maggio 2022 Bruxelles arriva REPowerEU, il piano per non essere più sotto scacco di Mosca sul piano energetico. Un piano da 300 miliardi che punta fondamentalmente su una diversificazione delle forniture, sulle energie rinnovabili e sull’idrogeno.
Cosa c’entra REPowerEU con la leadership cinese nel mercato del fotovoltaico? C’entra eccome.
Tra le misure previste nell’ambito del piano europeo, infatti, figura anche la strategia UE per il solare che ha l'obiettivo di connettere alla rete oltre 320 GW di solare fotovoltaico di nuova installazione entro il 2025, più del doppio rispetto ai livelli odierni, e quasi 600 GW entro il 2030. Strategia che include l’iniziativa europea per i tetti solari in cui figura l’obbligo per tutti i nuovi edifici pubblici e commerciali di installare pannelli solari sui tetti entro il 2026, per quelli già esistenti entro il 2027 e per tutti i nuovi edifici residenziali entro il 2029.
Nel frattempo, per velocizzare gli iter burocratici che troppo spesso bloccano gli investimenti nelle rinnovabili in Europa (soprattutto in Italia) la Commissione ha proposto a novembre un regolamento di emergenza che servirà ad accelerare le autorizzazioni per nuovi impianti fotovoltaici e per il repowering di quelli esistenti.
Insomma, per l’Europa il solare fotovoltaico è un mercato imprescindibile, come del resto lo sono tutte le energie rinnovabili. Ed è un mercato controllato sostanzialmente dalla Cina. Ma non è l'unico.
Anche per le materie prime dipendiamo dalla Cina?
Assolutamente sì. E non è causale: quello delle materie prime è infatti un mercato legato strettamente a quello dell’energia pulita e della duplice transizione, green e digitale.
Deng Xiaoping, l’architetto della superpotenza cinese, disse qualche anno or sono: “Il Medio Oriente ha il petrolio, noi i metalli rari”.
La Commissione europea ha individuato 30 materie prime considerate strategiche, quindi critiche. Tra queste c’è ad esempio il litio, metallo dotato di elevata conducibilità elettrica e termica, decisivo per la costruzione delle batterie e non solo. Volendo semplificare, per produrre batterie, motori elettrici, turbine eoliche e pannelli fotovoltaici servono materie prime critiche come il litio e il cobalto; l’Europa non li produce e, ancora una volta, dipende dalle forniture di Cina.
“Tra le 30 materie prime considerate critiche oggi, dieci provengono soprattutto dalla Cina. E la Cina controlla in maniera sostanziale l'industria di trasformazione. Quasi il 90% delle terre rare e il 60% del litio vengono lavorati in Cina. Dobbiamo evitare di cadere nella stessa dipendenza che abbiamo avuto con petrolio e gas”, ha dichiarato a settembre la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
La volontà cinese di controllare il mercato delle materie prime è stata ribadita quasi un anno fa, alla fine del 2021, quando il Ministero dell’Industria e dell’Information Technology ha presentato un piano mirato ad agevolare lo sviluppo dell’industria delle materie prime nell’ambito del 14esimo Piano Quinquennale 2021-2025. Un piano in base al quale entro il 2025 il nuovo modello di sviluppo cinese per il settore delle materie prime sarà indirizzato a garantire maggiore qualità, basse emissioni e maggiore sicurezza.
Ma il mercato europeo non dipende solo dal Dragone. La Turchia fornisce all’UE il 98% del borato, il Sudafrica il 71% del platino e una percentuale ancora più alta per i materiali del gruppo del platino: iridio, rodio, rutenio. Il litio è fornito al 78% dal Cile, mentre la fornitura di alcune materie prime critiche con l’afnio e lo stronzio dipendono da singole aziende europee.
L’Europa sta facendo qualcosa per cambiare le carte in tavola?
Certo che sì. Tralasciando per un attimo le numerose strategie e i tanti regolamenti collegati, l’Europa ha iniziato da qualche anno a muoversi su un piano industriale per evitare di dipendere totalmente da fornitori terzi per materie prime, batterie e rinnovabili.
Lo ha fatto lanciando una serie di alleanze ad hoc. A partire dalla partnership sulle batterie, nata per sviluppare l'intera catena del valore delle batterie elettriche in Europa, affinché questa non solo non dipenda da importazioni ma diventi anche leader mondiale nel settore. Detto in altri termini, l’Alleanza europea per le batterie serve a dare vita alle cosiddette gigafactory.
Perché se è vero che l’Europa non è il continente più ricco di miniere e materie prime ciò non significa che debba restare a guardare. Secondo un report di Benchmark Minerals di marzo, nel Vecchio continente sono stati avviati progetti per una capacità totale di 789,2 GWh al 2030, poco più del 14% dei 5.452 GWh previsti a livello globale. Un livello sufficiente a sostenere l’assemblaggio di quasi 15 milioni di veicoli elettrici.
Ma quella sulle batterie non è l’unica alleanza industriale lanciata da Bruxelles. Ne esiste una dedicata all’idrogeno verde, vettore energetico su cui la Commissione punta moltissimo per sganciarsi dal gas russo, ed esiste un’Alleanza europea per le materie prime, cui nel 2023 seguirà una legge ad hoc che ripercorrendo la strada già tracciata per i semiconduttori con l'European Chips Act intende sganciare l’Europa dalla dipendenza cinese o almeno ridurla in modo importante.
A queste, entro fine 2022, si aggiungerà un nuovo tassello, l’Alleanza europea dell'industria solare fotovoltaica, che avrà due obiettivi principali: moltiplicare gli investimenti nel settore e sviluppare le tecnologie di produzione di e componenti solari fotovoltaici innovativi tentando così di tagliare il cordone ombelicale con Pechino.
L'Unione Europa ha una carta da giocare?
Sì, anche più di una.
Nel braccio di ferro con il resto del mondo l'Europa ha un suo peso. Ed è in primis un peso commerciale.
Riprendendo i dati Eurostat, nel 2021 la Cina era il terzo partner più importante per le esportazioni di beni europei (10,2%) e il principale partner per le importazioni (22,4%).
Tra gennaio 2020 e dicembre 2021, le importazioni europee dalla Cina sono aumentate del 55,2%. E’ un dato già di per sé rilevante, soprattutto se confrontato con le importazioni UE da altri Paesi extra-UE, aumentate solo del 18,6%.
Stesso discorso per le esportazioni: l’export dell'UE verso Pechino ha visto un incremento tra gennaio 2020 e dicembre 2020 del 9,9%, mentre quello verso altri paesi non UE è aumentato del 4,4%.
Detto in soldoni, è vero che l’Europa dipende dalla Cina per materie prime e componenti per batterie, impianti fotovoltaici e non solo, ma è anche vero che la Cina non può fare a meno degli acquisti europei.
L'altro asso nella manica dell'Europa sta nell'investimento in ricerca e innovazione. Per sganciarsi dalla dipendenza dalle materie prime cinesi, ad esempio, occorre puntare su tecnologie innovative e all'avanguardia che permettano sostanzialmente di sganciarsi (se non del tutto, almeno in buona parte) dalla dipendenza cinese.
Diversi gruppi di ricerca e startup europee sono al lavoro sulla creazione di accumulatori con prestazioni simili a quelli attuali ma costituiti da materie prime diverse e molto più facili da reperire. Gli accumulatori allo zolfo, ad esempio.
La start-up tedesca Theion ha sviluppato le cosiddette “batterie di cristallo”, più potenti e meno costose rispetto a quelle convenzionali. La chiave del successo sta nei materiali utilizzati, vale a dire litio, zolfo e carbonio. Lo zolfo, in particolare, è disponibile in grandi quantità a prezzi estremamente bassi e non deve essere estratto, determinando un notevole risparmio energetico.
La tecnologia utilizzata porta inoltre ad un cambiamento della struttura stessa dello zolfo, creando una struttura cristallina che permette di immagazzinare il triplo dell’energia delle normali batterie. Secondo il CEO di Theion Ulrich Ehmes, la prima cella sarà pronta per la fine del 2022 e verrà utilizzata nei viaggi spaziali commerciali, che necessitano di componenti particolarmente leggere.
L'altra strada su cui l'Europa si è avviata da tempo e che ha intenzione di percorrere anche nei prossimi anni è quella della circolarità di batterie e componenti per pannelli fotovoltaici o altre fonti di energia rinnovabile. Non potrebbe essere altrimenti, come ha sottolineato nei mesi scorsi anche BASF, il colosso tedesco del settore chimico, secondo cui entro 5-10 anni il riciclo potrà diventare la più importante forma di approvvigionamento dei materiali per questo settore.
Il contributo delle strategie e dei fondi europei in tal senso è importante, come dimostrano anche i prossimi bandi Horizon Europe per sostenere la ricerca nelle rinnovabili e nello storage, che andranno a sostenere (tra le altre) innovazioni tecnologiche per la produzione di batterie sostenibili ed efficienti, progetti per potenziare il riciclo dei componenti delle batterie e ottimizzarne prestazioni e durata, sviluppo di materiali e celle avanzati che consentano la produzione su larga scala di batterie.
L’Europa, insomma, ha dalla sua due elementi: oltre a massicci investimenti in ricerca e innovazione, il Vecchio Continente è un mercato inevitabile che ha il pregio di proporre un modello virtuoso dal punto di vista della sostenibilità sia ambientale che sociale. Modello che - tramite le strategie di sviluppo e azioni dirette come le alleanze industriali - sta tentando di proteggere e, idealmente, vorrebbe esportare a livello a globale. Ci riuscirà?