CDP: la de-globalizzazione è un’opportunità per i porti italiani
In una brief rilasciata in questi giorni, Cassa Depositi e Prestiti analizza le potenziali conseguenze positive per il sistema portuale italiano, derivanti dal rallentamento della globalizzazione ormai in corso da 15 anni e in fase di accelerazione dopo il Covid.
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E’ questa, in buona sostanza, la tesi del documento “Deglobalizzazione e Mar Mediterraneo: quale ruolo per l’Italia?” pubblicato di recente da CDP. Secondo i ricercatori di Cassa, infatti, quello a cui si sta assistendo negli ultimi anni è un progressivo accorciamento delle catene globali del valore, con segnali di un ritorno ad una maggiore concentrazione della produzione all’interno dei confini nazionali.
In tale contesto, lo scenario sembrerebbe portare verso una nuova fase del commercio internazionale, marcatamente segnato da una progressiva regionalizzazione della produzione e degli scambi.
Ciò, in ambito europeo, permetterebbe di rafforzare la cooperazione economica nel Mediterraneo con potenziali vantaggi per i porti italiani che potrebbero candidarsi a diventare il principale hub logistico portuale tra Nord Africa ed Europa continentale, a patto però di risolvere alcuni limiti strutturali.
De-globalizzazione, regionalizzazione e accorciamento delle CGV
Partiamo dai dati. Secondo i ricercatori di CDP, da più di 15 anni il processo di globalizzazione sta gradualmente rallentando, con una “progressiva riduzione del peso del commercio internazionale sul PIL mondiale, riconducibile in misura significativa all’esaurimento del processo di frammentazione delle catene globali del valore: la produzione mondiale non continua cioè ad essere sempre più divisa fra imprese localizzate in Paesi diversi, ma, al contrario, ci sono segnali di un ritorno a una maggiore concentrazione all’interno dei confini nazionali”, spiegano da CDP.
Alla base di tale dinamica ci sarebbero due principali ragioni. La prima deriva dall'obiettivo cinese di affermarsi come potenza industriale sempre meno dipendente da tecnologie importate e dall’export. La seconda discenderebbe invece dal più recente ripensamento da parte dell’Occidente di avere forti dipendenze estere in filiere strategiche per la sicurezza nazionale. Una visione geopolitica che sta portando USA e UE a mettere in campo una serie di politiche volte a favorire processi selettivi sia di re-industrializzazione (il cosiddetto reshoring), sia di ri-localizzazione delle filiere produttive, puntando su partner geopoliticamente affidabili (friendshoring).
Il futuro dei porti italiani
In tale contesto, davanti ad una progressiva regionalizzazione della produzione e degli scambi, le opportunità che i porti italiani potrebbero intercettare sono notevoli. In ambito europeo, infatti, si potrebbe puntare su un rafforzamento della cooperazione economica nel Mediterraneo. Oltre che per la vicinanza geografica, i Paesi extra-europei affacciati sulle sponde mediterranee possono rappresentare in effetti una valida soluzione per ridefinire la configurazione delle filiere produttive della UE, facendo leva su:
- una buona specializzazione in ambiti industriali di particolare interesse per le imprese europee a valle;
- costi di produzione ancora contenuti,
- una dotazione di infrastrutture logistico-portuali in deciso rafforzamento.
Un “riassetto degli equilibri commerciali in ottica mediterranea”, scrive quindi CDP, che potrebbe rappresentare “un’opportunità per la portualità italiana, che può fare leva sulla sua leadership indiscussa nel traffico marittimo a corto raggio, ossia una modalità di trasporto pienamente in linea con le esigenze del commercio regionale”. Come spiegano gli analisti CDP, infatti, si tratterebbe di “un settore in cui l’Italia può far valere una posizione di eccellenza, essendo il primo Paese in Europa per volume di merci movimentate, con una quota di mercato pari al 14% del totale, davanti a Paesi Bassi 13,5%, Spagna 10% e Francia 7% (dati Eurostat)”.
Per far sì che ciò avvenga, è necessario però che il nostro Paese risolva una volta per tutte alcune strozzature infrastrutturali che ne minano la competitività. In particolare secondo CDP sarebbe necessario agire su quattro fronti, indirizzati in parte anche dal PNRR. In primo luogo è necessario migliorare l’efficienza dei servizi portuali, riducendo i tempi di stazionamento delle navi che risultano decisamente elevati rispetto ai principali concorrenti (il tempo medio di attesa nei porti italiani si attesta a 1,34 giorni contro 0,62 nei Paesi Bassi e 0,9 in Spagna).
In secondo luogo si tratterebbe di potenziare servizi e infrastrutture per l’intermodalità, cruciali per il rilancio e lo smistamento dei carichi portuali. Ad oggi, tra i principali porti italiani solo due su cinque sono collegati direttamente alla rete ferroviaria nazionale.
Non meno importante anche la partita volta a sviluppare le aree retroportuali, attraverso la piena implementazione delle Zone Economiche Speciali (ZES) e delle Zone Logistiche Speciali (ZLS), due strumenti cruciali per incoraggiare gli investimenti e l’insediamento di nuove imprese.
Infine la necessità di promuovere l’efficientamento degli scali in ottica green, puntando in particolare sul cold ironing (a fine 2021, in Italia c’erano solo due banchine dotate di servizi di alimentazione onshore contro le 145 dei Paesi Bassi), sullo sviluppo di infrastrutture per l’accosto di navi GNL/dual-fuel o alimentate da combustibili alternativi (ammoniaca, metanolo, idrogeno) e sull’abilitazione all’uso di energie rinnovabili in porto.
Consulta la Brief “Deglobalizzazione e Mar Mediterraneo: quale ruolo per l’Italia?”
Foto di Hessel Visser da Pixabay